I processi adeguati e monitoraggio sull’implementazione di politiche di inclusione spiegati dall’Avv. Rita Santaniello, Partner, e Avv. Rebecca Salat, Associate, dipartimento del diritto del lavoro, Rödl & Partner
L’accesso al mondo del lavoro è un diritto riconosciuto a tutti. Il concetto, sebbene possa sembrare scontato in prima lettura – grazie all’evoluzione dei tempi accompagnata dal susseguirsi di importanti fenomeni politico-sociali – in realtà non lo è. Nel 1948, con una visione giuridica lungimirante, la Costituzione italiana prevedeva la promozione delle condizioni per rendere effettiva l’uguaglianza di opportunità tra gli individui. Pensiamo, quindi, alla tematica dell’ingresso delle persone portatrici di handicap nel mondo del lavoro: oggigiorno risulta ancora più impellente l’esigenza di garantire a questa categoria di lavoratori una inclusione effettiva.
La Costituzione, ispiratrice di ideali e valori volti alla tutela dei consociati, rappresenta la base necessaria per il legislatore italiano che, nel corso degli anni, ha sviluppato una normativa incentrata sull’obbligo di assunzione delle persone disabili. Pensiamo alla Legge 12 marzo del 1999 n. 68, recante il titolo, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” o infine alla Legge 5 febbraio 1992, n. 140, (c.d. Legge 104).
Eppure, la tematica non può essere ridotta al mero collocamento obbligatorio: il problema così affrontato non porterebbe al raggiungimento della piena compliance. L’inclusività nell’ambiente lavorativo in Italia è stata esaminata recentemente attraverso un’indagine condotta su 102 imprese in Italia nei settori servizi e industria. Più dell’80% di esse afferma di impegnarsi fortemente nel contrastare ogni forma di discriminazione e nel rispettare le identità dei dipendenti. Il 76% delle aziende ha già implementato politiche di gestione della diversità che vanno oltre i requisiti legali, concentrando principalmente sull’inclusione delle persone con disabilità. Inoltre, il 22% ha in programma di adottare tali politiche in futuro.
La “non compliance” – intesa quale non conformità a determinate norme, regole o standard – può avere un concreto impatto economico sull’impresa: basti pensare alle sanzioni comminate in caso di violazione degli obblighi in merito al collocamento obbligatorio in capo al datore. Tuttavia, il concetto di inclusività è qualcosa di ben più ampio: si tratta di una scelta intenzionale, volta a valorizzare (e non meramente accettare o non discriminare) le diversità nei contesti di lavoro.
È così che si raggiunge la piena compliance: oltre al rispetto della normativa, è necessario garantire a tutti di esprimere al meglio il proprio potenziale e valore, dando la stessa possibilità di partecipare e contribuire, indipendentemente dalle caratteristiche personali.
Il tema dell’inclusione riveste un ruolo centrale anche nelle politiche dell’Unione Europea. La Direttiva CSRD (Direttiva Europea sul Bilancio di Sostenibilità) e il programma NextGenerationEU, in linea con il Regolamento RRF, pongono l’accento sulla crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Il NextGenerationEU richiede che i piani nazionali siano allineati a questi principi e che garantiscano un impatto interno attraverso riforme legislative e investimenti pianificati in modo interconnesso.
Uno dei pilastri chiave del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF) è l’inclusività tradotta come promozione della valorizzazione delle diversità. Questo stimola l’innovazione, come nel settore del marketing, poiché un approccio inclusivo aiuta a intercettare una parte significativa del mercato, migliorando al contempo la reputazione del marchio. Inoltre, l’inclusività favorisce la employee attraction and retention, ovverosia l’attrazione e il mantenimento dei dipendenti, riducendo il turnover e aumentando la soddisfazione dei dipendenti, che sono meno propensi a considerare altre opportunità lavorative o a lasciare il lavoro per motivi personali.
Non di meno, la prevenzione dei rischi per l’azienda è un punto essenziale da considerare. Pensiamo per esempio al “periodo di comporto”, cioè quel periodo massimo di assenza dal lavoro per malattia o infortunio previsto dalla contrattazione collettiva durante il quale il dipendente conserva il suo posto di lavoro. Il fitto contenzioso in materia ha recentemente contribuito alla creazione di nuovi filoni giurisprudenziali volti al rafforzamento delle tutele per i lavoratori disabili. La Corte di Cassazione, con la sentenza del 31 marzo 2023 n. 9095, ha confermato il principio già affermato in alcune sentenze di merito secondo cui è illegittimo il licenziamento per superamento del comporto adottato nei confronti del dipendente disabile nel caso in cui il periodo massimo di assenza stabilito nella contrattazione collettiva sia lo stesso previsto per i dipendenti non disabili.
Più recentemente, sempre nello stesso ambito giuridico, il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla CGUE un quesito centrale per l’evoluzione del tema: ovvero, se il periodo di comporto previsto dal CCNL Terziario possa considerarsi un ragionevole accomodamento idoneo a escludere la discriminazione indiretta dei lavoratori disabili.
La CGUE nella causa C-631/22, ha sottolineato che il rifiuto di un “accomodamento ragionevole” da parte del datore può costituire discriminazione fondata sulla disabilità se non è stato considerato l’obbligo, ampiamente interpretato, di adattamento organizzativo all’interno dell’azienda. Si inserisce, nel fattore rischio, anche l’argomento circa l’onere della prova: il lavoratore gode di un vantaggio probatorio che gli consente di presentare e dimostrare le circostanze di fatto dalle quali si può inferire che la discriminazione abbia avuto luogo.
C’è ancora molto su cui lavorare, ma una cosa è certa: bisogna premunirsi con processi adeguati e monitoraggi sulla effettiva implementazione di politiche di inclusione a salvaguardia dell’azienda osservando, soprattutto, la dovuta responsabilità sociale.