«Dovremo poter gestire la nostra offerta sanitaria come un’azienda unica, in modo da essere pronti a fronteggiare una pandemia in modo più efficiente e sostenibile».
Ne è convinto Paolo Ferrari, Capo Area medica dell’Ente Ospedaliero Cantonale e medico consulente in nefrologia all’Ospedale Civico di Lugano.
Laureato a Berna, Ferrari ha lavorato in Australia dal 2003 al 2017, prima a Perth come direttore del Dipartimento di nefrologia al Fremantle Hospital e poi a Sydney, da direttore del Centro di trapianti renali presso il Prince of Wales Hospital. Direttore fondatore del programma australiano dei trapianti di reni crossover fino al 2017, nel 2015 è stato insignito della Legione d’Onore Australiana per i suoi contributi nel trattamento del trapianto di reni.
Come giudica sia stata gestita l’emergenza coronavirus, in Svizzera in generale e in Ticino in particolare?
«Un giudizio può essere dato solo a bocce ferme. Durante la gestione della prima fase di metà marzo, il Governo Ticinese ha reagito in modo determinato e molto adeguato, malgrado il fatto abbia dovuto scontrarsi con la Berna federale, che proponeva misure meno incisive. Dal momento della chiusura totale alla riapertura di fine aprile il Cantone ha agito con determinazione e coesione. La riapertura è stata gestita in maniera forse meno strutturata e pianificata. Abbiamo vissuto un rapido ritorno alla normalità con comportamenti a volte poco sensibili delle persone, forse perché c’era la percezione che il Covid-19 se ne fosse andato. Il Governo ha introdotto di nuovo misure più restrittive, ma in modo non sempre coerente. È mancata la volontà di monitorare in modo più rigoroso ed effettivo i nuovi contagi, testando la popolazione con maggior capillarità, isolando i positivi e tracciando i contatti. Non ci hanno aiutato il diritto dell’individuo alla privacy, l’introduzione solo facoltativa di una App di tracciamento, le quarantene “volontarie” di chi rientra da un Paese a rischio e l’assenza di tracciamento delle persone provenienti da questi Stati».
Quali saranno le future sfide per l’Ente Ospedaliero Cantonale una volta finita l’emergenza?
«In primavera per far fronte al Covid-19 all’EOC abbiamo dovuto smontare pezzi di ospedale a Mendrisio, Lugano e Bellinzona per rimontarli a Locarno e per creare quei letti di terapia intensiva necessari ad accogliere i pazienti più gravi. Una riorganizzazione che ha richiesto un grosso dispiego di risorse ed energie per ristrutturare una serie di reparti in modo da curare in modo adeguato e sicuro i cittadini.
In autunno, per far fronte a una recrudescenza di contagi, dopo aver ripristinato quello che era stato smontato in precedenza, stiamo rifacendo la stessa cosa. Dopo il Covid-19 l’offerta sanitaria nei vari ospedali dell’EOC dovrà essere adattata alle nuove esigenze che una pandemia ci impone: gli ospedali dovranno assicurare la presa in carico di pazienti ordinari e pazienti contagiati, garantendo percorsi separati per evitare la trasmissione di un potenziale nuovo virus e la capacità di modulare i reparti all’interno delle strutture.
Nell’immediato futuro l’EOC dovrà poter gestire la sua offerta sanitaria, i suoi ospedali, come un’azienda unica, in modo da essere pronto a fare fronte a una pandemia in un modo più efficiente e sostenibile. Non potrà più solo essere la politica a definire la pianificazione ospedaliera».
Lei ha spesso ricordato come il Covid-19 non abbia provocato solo vittime dirette, ma anche indirette: qual è stato il vero tributo pagato al coronavirus?
«È ancora presto per valutare l’effettivo impatto della pandemia sulla nostra società. C’è il pesante tributo pagato dalle persone colpite in modo grave dal virus e da coloro che hanno perduto un loro caro o un amico. Il conto sarà salato per i giovani, che hanno dovuto rinunciare alla loro istruzione e che potrebbero ritrovarsi con un mercato del lavoro con limitate possibilità d’impiego; per le piccole imprese, che rischiano il fallimento; per l’industria che dipende dalla mobilità delle persone; per il turismo, che potrebbe soffrire di una contrazione del mercato per anni. Ogni giorno ci sono persone che perdono lavoro e reddito: sappiamo che queste situazioni sono causa di stress, malattie mentali e morte prematura».
Quando ritiene che si possa iniziare a scrivere la parola “fine”sull’emergenza, tornando lentamente a una situazione di normalità?
«C’è una fine sanitaria e una fine percepita a un’emergenza come questa. Le pandemie del passato ci insegnano che il termine biologico di una malattia è spesso impossibile da stabilire. Il virus H1N1 della “Spagnola” continuò a circolare fino al 1957 quando fu soppiantato dalla pressione selettiva esercitata dall’H2N2 della pandemia “Asiatica”. Per il Covid-19 c’è chi preconizza una terza, una quarta o una quinta ondata, ma la “Spagnola” del 1918, l’”Asiatica” del 1957 e la “Suina” del 2009 non sono durate più di due anni: è improbabile che il Covid-19 si comporti in modo differente. La fine di una pandemia però non è data dalla scomparsa dell’agente patogeno, ma dalla fine dell’allarmismo e dello stato d’emergenza. La strada sembra però ancora lunga».
Come sarà a suo avviso la “nuova normalità” post coronavirus? Saranno necessarie ancora precauzioni sanitarie?
«La storia ci insegna che le pandemie scompaiono. Quando la popolazione avrà raggiunto la cosiddetta immunità di gregge, anche il Covid-19 sparirà come la “Spagnola” o l’“Asiatica”. L’immunità di gregge si può raggiungere con un vaccino efficace, ma quando potrà essere distribuito in larga scala rimane ancora un’incognita. Per ora l’unico strumento che abbiamo a disposizione sono le misure di protezione e di distanziamento sociale».
Quali sono le tre cose più importanti che ci ha insegnato questa pandemia?
«La prima è che nella medicina moderna eravamo abituati a curare malattie non-trasmissibili, condizioni croniche senza pericolo di contagio, prevedibili in termini di frequenza, ma non eravamo più pronti ad affrontare un’epidemia. La seconda è che sappiamo dimostrare enormi capacità di risposta, di adattamento e di resilienza. La terza è la differenza delle diverse culture nell’affrontare questa sfida.
Il Covid-19 è arrivato dall’Estremo Oriente: nel febbraio 2020 Cina e Corea del Sud erano considerati a rischio, chi tornava da questi Paesi doveva farsi testare e mettersi in quarantena. Ma dall’inizio della pandemia in Corea del Sud sono stati registrati in totale 27.300 casi, tanti quanti la Svizzera oggi registra ogni tre giorni. La disciplina degli asiatici nel portare la mascherina e rispettare il distanziamento sociale è ammirevole. Per prevenire una seconda ondata, in Corea è stato adottato un sistema di tracciamento dei contatti che tra l’altro utilizza la geolocalizzazione dei telefoni mobili, la cronologia dei pagamenti con carta di credito, i dati sull’utilizzo di trasporti pubblici e le telecamere a circuito chiuso. Da noi sarebbe considerata un’impensabile violazione dei diritti, ma in una situazione come quella che il Covid-19 ha creato, anteporre il bene pubblico ai diritti individuali laddove la salute e la sicurezza pubblica sono messi a rischio sembra più che giustificato».