Intervista a Massimo Galli

Galli: combattere le future pandemie con reti pubbliche sul territorio

Secondo il primario del Dipartimento malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, il Covid-19 verrà battuto solo da un’immunità di gregge creata da una copertura vaccinale. A cura della redazione

Massimo Galli, direttore del Dipartimento malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano e ordinario di malattie infettive all’Università Statale di Milano

«La direzione che deve prendere la sanità lombarda è la costruzione di efficaci reti sul territorio, fondate anche sulle eccellenze nelle strutture pubbliche che fortunatamente nella nostra regione esistono».

Ne è convinto Massimo Galli, direttore del Dipartimento malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano e ordinario di malattie infettive all’Università Statale di Milano.

Galli è un infettivologo diventato famoso in Italia durante l’emergenza coronavirus per la sua grande competenza professionale, oltre che per la schiettezza e la trasparenza delle sue prese di posizione.

Quali saranno le future sfide, per la sanità italiana in generale e lombarda in particolare, dopo la fine dell’emergenza? «In Lombardia devono essere ribaltate le vecchie logiche: si deve tornare a rimettere in primo piano la prevenzione sul territorio. Senza nulla togliere alle eccellenze della sanità privata lombarda, si deve acquisire un atteggiamento in cui la medicina pubblica torni ad avere una dignità che non comporti delega».

Quindi meno delega al privato? «Assolutamente sì, beninteso senza avere atteggiamenti di demonizzazione del privato. La direzione che deve prendere la sanità lombarda è la costruzione di efficaci reti pubbliche sul territorio, fondate anche sulle eccellenze nelle strutture pubbliche che fortunatamente nella nostra regione esistono, e una minore enfatizzazione delle eccellenze private. In questo modo potremo costruire una sistema più robusto e in grado di affrontare potenziali emergenze future, come quella dei microrganismi multiresistenti agli antibiotici, che sono candidati a diventare la prima causa di mortalità entro il 2050».

Ospedale Sacco di Milano

Quando ritiene che si possa iniziare a scrivere la parola “fine” sull’emergenza coronavirus, tornando lentamente a una situazione di normalità? «Innanzitutto va ricordato che si tratta di un’emergenza globale, che implica una serie di problematiche molto serie in termini di gestione: non esiste quindi una possibile soluzione in un solo Paese, ma potrà esistere solo se riusciremo ad arrivarci tutti assieme. In secondo luogo, senza un vaccino valido sarà quasi impossibile liberarci dal Covid-19. Solo un buon vaccino potrà cambiare in maniera sostanziale la situazione, poiché in assenza di uno strumento di questo tipo non riusciamo a controllare in maniera significativa la trasmissione dell’infezione se non a prezzo di pesanti interventi sull’economia e sulla libertà delle persone. In altre parole, saremo costretti a convivere con il Covid-19 fino a quando non avremo una vera e propria immunità di gregge, creata con una copertura vaccinale. Durante la prima ondata della pandemia, quella iniziata a febbraio, grazie al lockdown abbiamo registrato un grande successo dal punto di vista del contenimento dell’infezione. Poi però durante l’estate abbiamo finito per riaprire tutto senza vere precauzioni, con il risultato di finire ancora in emergenza, come del resto l’Europa intera. Questa situazione di tira e molla, di “stop and go”, va evitata».

Come giudica sia stata gestita l’emergenza in Italia? «Tra luci e ombre. Un capitolo molto doloroso è stato quello delle Residenze Sanitarie Assistenziali, che non sono state poste in sicurezza in modo tempestivo se non quando i buoi erano scappati. O meglio quando il “predatore” era già entrato, in particolare attraverso il cavallo di Troia del personale, che inconsapevolmente ha portato l’infezione all’interno delle RSA. Ma l’errore forse più clamoroso è stato il ritardo con cui si è proceduto alla chiusura di determinate aree molto colpite dal coronavirus».

Durante la pandemia è tornato in primo piano il valore di un’informazione corretta, equilibrata e verificata. A suo avviso come si sono comportati i media italiani nei mesi dell’emergenza? «Si è parlato di “infodemia”, ma è normale che – vista la portata del problema – il coronavirus sia diventato un elemento centrale della comunicazione. In generale i media italiani si sono comportati bene, dando però in alcuni casi troppo spazio a informazioni fuorvianti. Quante volte in assoluto ci siamo sentiti comunicare, anche da medici, che il problema era dietro le spalle? Si tratta di affermazioni che sono diventate facile strumento nelle mani di chi voleva dare una dimensione di assoluta modestia al problema, puntando a sminuirne la portata».

Per concludere, come infettivologo quali consigli si sente di dare ai cittadini? «Di starsene a casa e stare bene attenti a quello che fanno, tanto più se non sono giovani. E avere bene chiaro in testa che se è vero che i lockdown rappresentano un momento di grande sofferenza, non solo economica, è altrettanto vero che non si può vivere di “stop and go”. Se si continua a chiudere e riaprire, alla fine ci si trova sempre daccapo. Finché un vaccino efficace non viene distribuito in grandi quantitativi, con il coronavirus dobbiamo purtroppo continuare a conviverci. Cercando di tenerlo a bada».

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